L’AQUILA – Cosa fare, oggi, di fronte ad “un male che non può essere guarito ma che, al contempo, non porta neppure alla morte?”. “Combattere il dolore – ha risposto mons. Giovanni D’Ercole, vescovo ausiliare dell’Aquila – costituisce l’imperativo per tutti coloro che sono chiamati, a vario titolo, a prendersi cura di chi soffre”. Intervenendo oggi ad un Simposio sull'”Impatto sociale del dolore cronico” (Sip), in corso nella sede del Parlamento europeo per iniziativa della Federazione Europea delle Società per lo Studio del Dolore (Efic), mons. D’Ercole ha osservato che “salvare la vita umana era in passato il dovere principale” dei medici, mentre “quello di alleviare il dolore restava un impegno secondario”. Oggi, però, “si assiste ad un mutamento che sembra talora persino un ribaltamento di situazione”. La vita media dell’uomo, infatti, si è allungata e molte malattie sono state debellate, ma – si e’ chiesto il presule – “la qualità della vita è realmente migliorata? Si vive certamente più a lungo, ma si vive meglio rispetto al passato? Nonostante i progressi della scienza e della tecnica, restano non poche malattie croniche; resta sempre il dolore, compagno inseparabile di ciascun essere umano”, che “ci obbliga a fare i conti con i nostri limiti, per giungere infine al limite che tutti li comprende, ovvero la morte, la nostra morte, che non può essere di nessun altro”. “La vita non è qualcosa, è sempre un’occasione per qualcosa”. Mons. D’Ercole ha citato questa frase del neo beato Giovanni Paolo II, per ricordare che “ciò che realizziamo, ciò che amiamo, ciò che soffriamo non viene eliminato ma conservato nel libro della nostra vita”, il cui senso “appare chiaramente nell’attitudine che l’uomo assume di fronte al dolore inevitabile, di fronte alle avversità ed a situazioni irreparabili”. “Il medico, ed ogni terapeuta – ha ammonito a questo proposito il relatore – non deve occuparsi semplicemente della salute fisica e psichica del paziente, ma e’ chiamato ad aiutarlo a sopportare con consapevole responsabilita’ le inevitabili sofferenze che la vita a tutti riserva. Deve aiutarlo a riacquistare non soltanto la capacita’ di lavorare e di godere, ma anche di soffrire”. Compito non facile, questo, in una società “contrassegnata dal rifiuto culturale del soffrire e del morire”, in cui “la malattia diventa un assurdo, la sofferenza un fallimento inaccettabile”. Oggi, in altre parole, “la gente non accetta più di invecchiare. Non accetta di morire, Se, per caso, la morte esiste, essa riguarda sempre gli altri. Ma la morte esiste, immutata nei millenni, e tocca tutti”. Per questo, ha concluso il vescovo, “la medicina e’ chiamata a rispettare la morte, astenendosi da atti anticipatori, come pure da un accanimento terapeutico ingiustificato”.
Giovanni d’ercole interviene al parlamento europeo
Convegno sulla cura della sofferenza cronica
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