L’AQUILA – Come è evidente a chiunque abbia una frequentazione anche superficiale della produzione artistica degli ultimi decenni, Franco Angelosante si distingue assolutamente dalla maggior parte degli altri protagonisti dell’arte contemporanea. La sua diversità sta intanto nella autonomia e nella distanza, vorremmo dire caparbia, da scuole, movimenti, correnti, mode; ma poi soprattutto nell’invenzione di un procedimento creativo che è diventato cifra espressiva personale e distintiva. Le opere dell’artista abruzzese nascono da una felice intuizione tecnica e poetica, in cui si miscelano senso della esecuzione demiurgica e attenzione di fronte ai grandi temi della contemporaneità: da una parte cioè opera una sfida intima con i mezzi e le materie del “fare” che l’estro dell’artista conduce e conforma lungo i sentieri della fantasia, delle emozioni, delle personali fascinazioni; dall’altra, si manifesta un’esigenza ferrea a ricercare i ritmi del presente, a interpretare i grandi temi dell’esistenza attraverso le chiavi – immaginative, conoscitive, identificative – della contemporaneità. In fin dei conti, quello che fa Angelosante è niente di diverso che la elaborazione di un codice informativo, di un linguaggio che parla dell’uomo di oggi con gli strumenti significativi dell’oggi. La dialettica fra mondo interiore e realtà “come essa è” si salda e si risolve nella formula della ricerca costante, della (es)cogitazione non solo estetico-pratica (cioè relativa ai materiali, alle loro commistioni, manipolazioni, applicazioni, e alla loro fusione con i pigmenti in tecnica pittorica), ma anche progettuale, ingegneristica e tecnologica.
Angelosante, attraverso la contaminazione del dipinto e della rappresentazione con la meccanica degli elementi e l’elettronica dei congegni, ragiona la complessità del contemporaneo, racconta l’avventura umana come il comporsi, spesso risolto, spessissimo irrisolto, di tutte le tensioni che oggigiorno su quell’avventura agiscono. E ovviamente sono le tensioni che dirigono i cambiamenti e gli adattamenti fra l’uomo, il suo corpo, il suo pensiero e il mondo esterno. Sono le tensioni che agiscono in un tempo come quello attuale, caratterizzato dallo sviluppo tecnologico e dalla velocità di scambi e innovazioni che tale sviluppo consente, e che pure impatta su aspirazioni, paure e desideri, su stati d’animo e di relazione che risalgono i millenni di formazione della coscienza dell’uomo. La tecnologia altro non è che estensione degli “attrezzi” fisici e cognitivi con i quali l’uomo si relaziona con il mondo, è l’insieme delle “protesi” che permette di accrescere le capacità del corpo, ma anche di dilatare le facoltà culturali, spirituali, analitiche. Ma tanto il progresso tecnologico consente questa espansione, tanto al tempo stesso la condiziona e la uniforma. Con l’accelerazione così repentina e invasiva degli ultimi decenni, l’equilibrio fra aspetti positivi e aspetti negativi si fa sempre più incerto, sempre più problematica diventa la prospettiva con cui l’uomo considera sia il circostante che la propria interiorità.
Quella che Angelosante definisce Technology Art allora non è maliziosa applicazione spettacolare di effetti, espressione di un mero valore stilistico orientato alla suggestione percettiva. Invece la connessione fra ardita ingegneria delle materie, impressione visiva e pensiero che scruta e ordina il fondarsi di ogni equilibrio formale diventa l’occasione e il dispositivo per lanciare uno sguardo sensibile sul modo con il quale l’uomo oggi si ambienta nell’universo, su come lo va pensando e su come lo agisce. Il confine fra realtà naturale e realtà artificiale, fra ambito fisico e territorio dell’immaginario, fra condizionamenti esteriori e ricerca intima di verità viene interamente ripercorso con questi lavori, che non sono quadri, installazioni, sculture, ma veri e propri congegni di mobilità e illuminazione, apparecchiature della fantasia per sondare la consapevolezza del presente. La percezione artistica è il sistema di transizione che aiuta a scuotersi dalla distraente contingenza, e a trasferire sul presente reale e nel futuro qualcosa che appartiene profondamente all’uomo e che nell’uomo stabilmente risiede, la qualità della sua anima, della sua razionalità come delle visioni mitiche e utopiche, della sua brama di riscatto e salvezza.
Tutto quanto Angelosante adopera per le sue opere è elemento che deriva e che designa l’esperienza della vita, e in quanto tale è preso come materiale primario, costitutivo in sé dell’opera d’arte. Materiale che viene plasmato e collocato seguendo il tracciato di una acuminata meditazione che ha di colpo escluso ogni altro compimento. Angelosante impiega materiali e mezzi – dai più semplici, immediati, naturali ai più sofisticati, complessi, artefatti – al tempo stesso come significanti e come significati, braccando accanitamente la loro concordanza con i motivi ispirativi, in una
permutazione virtuosa e ridondante fra ciò che si vuol dire e gli strumenti adoperati per esprimerlo. Per questo i lavori di Angelosante hanno tanto poco di descrittivo e pedagogico, persino quando investono il campo minato del dogma e del mistero, della dimensione fantastica e dell’infinito reale. Piuttosto, proprio quando gli impieghi e le epifanie delle materie si fanno immagine ed evocazione, delineando l’immaterialità, quasi illusionistica, della forma, e a maggior contrasto proprio per la loro sussistenza fisica e tangibile, corporea, proprio allora si fanno spia di una disputa aperta, terreno di contraddizione dove l’artista non fornisce ricette e soluzioni, interpretazioni categoriche e rivelazioni, ma lascia che l’emozione di una luce levigata, la suggestione di un movimento ipnotico, il volo di una fantasia che collega punti luminosi nei contorni di un’immagine e di una presenza, accompagnino la riflessione e l’intuizione dello spettatore. Riflessione e intuizione: cioè intendere e introiettare, far sì che la (ri)cognizione dei processi logici e sentimentali che fanno il presente dell’uomo entrino nell’intima comprensione di ciascuno, solo in questo modo e adesso sì, rivelino un brandello di verità sull’esistenza e sui suoi valori.
Non so quale impressione possa dare una mostra, questa mostra, di Franco Angelosante. Di solito nelle esposizioni d’arte aleggia un’atmosfera tipica e stereotipata, che non fa attendere sorprese e che in qualche modo si può dare per scontata: opere sotto le luci e gente, spettatori che circolano in uno spazio emotivamente asettico (tale forse proprio per liberare le singole emozioni dei singoli?). Sempre di solito, tale standardizzazione più o meno latente è un bene, perché negli “spazi dell’arte” è francamente sancita una ritualità di modi e situazioni precisa, il rispetto della quale in qualche modo diventa garanzia dell’onesto lavoro degli artisti e dei curatori, in qualche modo rassicura habitués e neofiti.
Invece oggi presenziamo ad una mostra che possiede molto d’inatteso, nelle opere e nella contestualizzazione, e che fra le altre cose respinge l’uso convenzionale del luogo. Anzi propone e accomoda sue proprie dimensioni, che incorporano concomitanze di materie, motivi, colori, allestimenti e architetture, un assortimento di sollecitazioni che si trova come schierato in una sorta di invito e vincolo a voler sperimentare, a improvvisare lo spazio e al suo interno le relazioni. Allora le opere non solo occupano il posto dove sono collocate, ma lo significano, lo determinano e gli danno forza gravitazionale. Il sistema complesso di questa mostra è l’equilibrio fra i diversi (e di diversa intensità) campi di forza che ogni opera attiva. L’artista è la mente calcolatrice e inventiva che studia, conosce e soppesa la veemenza di queste energie, riesce a dosarle e miscelarle in un ambito che è a sua volta intenzionalmente “agito” e che perciò diventa esso stesso opera.
D’altronde, la mostra delle opere di Franco Angelosante non poteva semplicemente invadere e pesantemente occupare l’ambiente che la ospita. Le corrispondenze fra opere e luoghi andavano invece scovate e valorizzate (posto che qualunque genere di complicità si ammanta di segreto e ammiccamento) e il gioco delle analogie – delle metafore – sottilmente intrigato (ideato cioè, e poi ancor meno che suggerito). I locali del Vittoriano, la “réservée” della Sala del Giubileo, hanno accolto le opere del maestro solo dopo che è stata condotta una ricerca attenta delle possibili affinità fra i volumi architettonici e le geometrie che le opere stesse evocano. Il lavoro di Franco Angelosante crea per impronta genetica la progressione dei tagli spaziali, delle forme e costruzioni, delle tematiche ideali che lo tengono omogeneo e coerente. Al tempo stesso mostra un’altrettanto intrinseca duttilità e dinamicità, da rivelare connessioni sempre diverse secondo i diversi piani da cui si origina lo sguardo, e ancora moltiplicate e riflesse secondo la quantità e qualità di luce che le investe e che crea loro contesto. Sempre, lo spazio reale e lo spazio immaginario si fondono in un’unica volumetria insieme fisica e psichica, entro cui lavorano e si ordinano sequenze percettive e strutturazioni emotive, in cui la visione si interseca e si sovrappone con l’esperienza. Dove si osserva, al tempo stesso si vive.
È stato perciò ovvio rifuggire l’impostazione museale e didascalica, la suprema passività dell’opera abbandonata al territorio autonomo, impersonale e frazionato di una osservazione en passant, ma al contrario cercare di comporre una riproduzione tangibile, concreta e complessiva di un intero spazio
mentale. Evento in cui la relazione si fa combinazione. Dalla contemplazione si vira temerariamente alla partecipazione, l’intenzione e l’invenzione dell’arte si collocano nella compresenza e “con-dignità” di una pluralità di letture e sensi possibili, scambiando continuamente la polarità fra realtà ed apparenza, e fra individuale e collettivo.
Allora questo vero e proprio abitare la corrispondenza fra luoghi e opere porta lo spettatore a sentirsi parte inclusa all’interno di una rappresentazione, attore che deve cogliere e interpretare (nel senso proprio di collocare sulla scena) le minime variazioni della propria emozione. E insieme, lo rende “vittima consenziente” di un’alienazione di tempo e di luogo a bella posta costruita, di una trappola che però, anziché imprigionare, libera in un universo altro. Lasciando fuori l’insipidezza dell’ordinario.
La presenza dello spettatore diventa così creativa, perché non è accessoria a quella delle opere, ma è considerata in funzione e a misura proprio della soggettività di chi guarda, e dunque vive di una ricerca personale di interpretazione. Si agita, vibra intorno, propaga una dimensione sconosciuta in cui orizzonte visivo e idea si armonizzano in impressioni rapide e violente, come lampi di comprensione e condivisione.
Si tratta insomma di una sorta di sconfinamento, il fruitore mette in azione una concezione dilatata dove lo spazio è insieme quello dell’opera e quello nell’opera, quello passivamente occupato dai corpi e quello mobile e instabile delle percezioni individuali, uno spazio che è in effetti un insieme, un’aggregazione di spazi, anzi meglio dire, una rivelazione simultanea di spazi.
Giusto per insistere. Spazio e volume. Dallo spazio al volume. Il modo, la pienezza, con cui la forma prende corpo nello spazio segue il filo di uno svolgimento narrativo, o di un percorso, un itinerario in cui viene a mancare ogni frazionamento di tappa o sosta, ma che si snoda in continuità transeunte, di trapasso o di osmosi, in un’armonia composta secondo il gioco delle analogie e delle simpatie, della attrazioni e delle repulsioni, delle traslitterazioni da un ambito all’altro (dall’inorganico al naturale all’artefatto, dalla materia allo spirito, dal concreto all’astratto). Solo la similitudine, l’accostamento logico ed immaginifico, il raffronto poetico può tradurre questa armonia. Solo la metafora.
Ed ecco allora il cubo di luce e materia, la forma perfetta e (neanche a dirlo) tetragona, il coacervo fluttuante delle umane capacità e delle disumane ambizioni, l’immagine della simmetria che regola il mondo e le cui troppe eccezioni ne fanno irraggiungibile modello, inarrivato traguardo. Methafora introduce al percorso, è il percorso. Quest’opera sospesa nel proprio movimento ciclico e nella propria luce inespansa è il segno di come idea e forma si leghino fra loro e collochino questa loro relazione in un’atmosfera inesplicabile di distanza ed al tempo stesso di reciproca appartenenza. Methafora è una memoria del presente. Fulcro di corrispondenze, essa si crea all’interno un firmamento, e abita un firmamento, riproduce nel suo volume il medesimo spazio di cui si circonda.
Da essa partono visioni, a destra e sinistra, stanno presenze e apparizioni, compimenti e presagi, si coltivano tensioni. Un caos primigenio, un disordine oculato, opere che già inscenano la dialettica fra costituenti e la fusione di titaniche potenze eterogenee, ognuna risolutamente a sé centripeta e tutte affacciate sulla medesima dimensione ingombra, su questo spazio voluminoso senza previsione di vuoti.
Poi, la pittura formula per intero il proprio vocabolario visivo, si dilata a comprendere come propri ulteriori mezzi espressivi spazio, materia e luce, li utilizza per superarne l’essenza e attraversare le distanze che separano il dato reale da quello ideale. Tre infiniti vengono rappresentati, trasmutati uno nell’altro, e uno all’altro messi in riferimento e conformità. Franco Angelosante riesce a far percepire la contiguità fra l’infinito fisico dello spazio cosmico, quello creativo delle realizzazioni umane, quello spirituale della dimensione del divino e del sacro. Dagli scenari extra-terrestri, puntinati di led e profondi di distanze incolmabili, si passa agli ambiti umani, fulgenti di elettricità ed esorbitanti di connessioni. Sul medesimo giro di parete, la perfezione spettacolare dei cieli
stellati si raggruma in congetture di umanità, sempre in bilico fra l’utopia e la velleità. Metropolis, Genesi e Clone, fra le altre, sono l’infinitezza dei paradossi umani, e sono anche quello stesso universo di stelle e galassie, e universo d’intelligenza, che si osserva e si reinventa, che prova a pensare sé stesso.
E infine, la grande Croce. Occupa ogni prospettiva questo infinito dell’anima, punto ed estensione che rende stabile la fitta rete di correlazioni fra tutte le opere, e insieme autonomamente riflette la coscienza di una realtà inquieta e complessa, contraddittoria. È il mistero che incalza la dimensione immanente del reale.
Tre grandezze dunque, tre territori di confronto tra esteriorità ed interiorità, tre ambiti spaziali di omologie esistenziali. Sono infatti avvertiti simili questi spazi e le misure che li determinano, simili perché attinenti all’esperienza umana, a come l’uomo li percepisce, li vive, li abita e li “manipola”. Sono simili nella visione unitaria dell’artista, in questo modo visionario e al tempo stesso concreto di affrontarne la rappresentazione, in questa riuscita di dilatare al massimo il costrutto multisensoriale dell’esperienza estetica laddove materia, luce, colore, suono, movimento, immagine e visione si fondono in una intuizione contemporanea e completa. Sono simili, infine, nello stupore, nel senso di inadeguatezza, in quello di piccolezza e fugacità che riescono a infondere nello spettatore, però insieme ad un allargamento di emozione e coscienza, ad una sensazione appunto di infinito cui ognuno sa di appartenere e di cui si sente nella medesima vibrazione possessore e posseduto.
(francesco giulio farachi)

Franco Angelosante
Profilo biografico

Artista praticamente autodidatta, Franco Angelosante nasce a L’Aquila nel 1957 e si forma sullo studio dal vero del paesaggio e della figura umana. Perfeziona la propria tecnica attraverso la ricerca e gli approfondimenti sul magma avanguardistico del Novecento, dando vita ad un peculiare percorso lirico-recitativo che gli vale – fin dagli anni ’80 – numerosissimi riconoscimenti, anche di profilo istituzionale.
Sullo scorcio del nuovo millennio inizia ad occuparsi di Scienza applicata all’Arte, realizzando straordinari polimaterici ed installazioni di astrazione cosmica e futuristica, connotati da un certo interesse per il trascendente.
Nel 2005 riscrive il proprio manifesto, votandosi alla Technology Art ed avviando la produzione di opere dominate da un certo meaning metafisico, qualificate dall’utilizzo di componenti elettroniche coniugate alla personale passione per l’Astronomia.
L’esposizione di una propria opera nell’ambito delle manifestazioni culturali correlate al G8 dell’Aquila del 2009 gli dischiude le porte della critica e dell’establishment culturale, conferendogli la notorietà internazionale.
Franco Angelosante vive ed opera a L’Aquila.

 

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Registrazione Tribunale dell’Aquila n.560 del 24/11/2006 – PI 01717150666

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