L’AQUILA – Agostino aveva 12 anni. I capelli rossi e riccissimi. Una faccia piena di lenticchie e di schiaffi. Era alto e magro come un pioppo secco. Si muoveva a scatti, di velocità elettrica, e non restava mai fermo nello stesso posto per più di cinque minuti. A scuola, infatti, per rispettare la disciplina, senza farsi vedere, ogni giorno, si sfilava la cintura dei pantaloni e, con quella, si legava una gamba ai piedi del banco, il che creava problemi quando un professore lo chiamava alla lavagna. Una volta si beccò una nota sul registro di classe, per questo. “Perché l’alunno, con somma improntitudine e presta intelligenza metaforica e sediziosa, chiamato alla lavagna per essere interrogato, cercava di giungervi trascinando seco tutto il banco e con i pantaloni pericolosamente cadenti sui glutei”. Due giorni di sospensione. E quattro giorni di urla per far smettere l’intera classe di ridere.
Agostino viveva con la sua famiglia in una casa a Roio Piano. La casa si era salvata dal terremoto, riportando soltanto qualche danno superficiale, ma non così per la vecchia stalla che era costruita lì accanto e che, un tempo, ospitava il trogolo del maiale e un paio di placide vacche da latte, che fabbricavano un burro giallo e buonissimo. La stalla si era inclinata da un lato. Come se il vento avesse cercato di sradicarla e trasformarla in un aquilone. Dentro la stalla, animali non ce n’erano più, da tempo ormai, e c’era rimasto solo odore di vecchia cacca ormai anestetizzata, e di freddo pietroso. Ma era rimasta in piedi, anche se un po’ staccata dal muro, la scala che saliva verso il soppalco della stalla, poco sotto il tetto, colmo di vecchia paglia e bauli dimenticati.
Quella scala era una tentazione continua, per Agostino. Ci voleva salire sopra, sin da quando aveva sei anni. Prima, non si poteva, perché c’erano gli animali. E poi, non si poteva, perché le crepe del terremoto, se si fossero ulteriormente aperte sotto i suoi piedi, avrebbero potuto scaraventarlo a terra da un’altezza di almeno 5-6 metri. Voleva arrivare fino al soppalco, e guardare dentro i bauli, che immaginava nascondessero una vecchia mappa del tesoro, pronta a guidarlo verso un’isola deserta nei mari del Sud, disseminata di trappole, mostri e ragazzine coi capelli rossi che lo aspettavano.
L’occasione giusta si presentò dopo una brutta influenza, che lo aveva tenuto a letto per una intera settimana, durante la quale aveva mangiato solo brodini e lattemiele, e, per questo, era talmente dimagrito, che si potevano contare i battiti del suo cuore guardandogli il petto. Così leggero, poteva provare a salire su quelle scale pencolanti, con una sufficiente certezza di farla franca e di non far crollare tutto. E fu così che, una mattina, mentre la madre e il padre erano a lavoro, e lui era appena convalescente, decise di avventurarsi. Si vestì con tre maglioni, un casco da pattinatore, e, trovata geniale, recuperò un grosso salvagente estivo per il mare, lo gonfiò e se lo mise addosso, come ammortizzatore sociale per la possibile caduta.
Iniziò con estrema cautela la salita. Ma, arrivato a metà della scala, quando ormai il pavimento sotto di lui sembrava il fondo di un pozzo lontano e oscuro, fu preso dalla frenesia e cominciò a correre verso l’alto, senza respirare, quasi volando, e atterrò sul piancito del soppalco. Lassù l’aria sembrava più buia e densa, di promesse e pericoli scricchiolanti. Vecchie ragnatele polverose pendevano dal tetto, oscillando al suono tenue del vento che penetrava tra i mattoni. E sembravano volerlo appiccicare, fermare. Ma Agostino aveva gli occhi luccicanti e subito mise le mani su un vecchio baule marrone, dalla grossa serratura di ferro nero, però indifesa, senza lucchetto. Ne sollevò il coperchio curvo e sembrava che, dal fondo, uscisse una specie di chiarore rosa, di cianfrusaglie libere dalla ruggine del tempo. Non c’era una mappa del tesoro lì, ma proprio il tesoro stesso.
Dentro una piccola sacca di stoffa erano custodite vecchie biglie di plastica. Per metà colorate e per metà trasparenti. E celavano dentro, un po’ annebbiate dai graffi sulla plastica, vecchie foto di ciclisti. Van Linden, Basso, Gimondi, De Vlaemink, Merckx… Agostino se le rigirava tra le dita, come perle estratte da un forziere di conchiglie, e cominciò a capire il senso di qualche vecchia storia raccontatagli dal padre. Il giorno dopo, Agostino sarebbe dovuto rientrare in classe dalla malattia. La mamma gli aveva consegnato il certificato medico, per la riammissione a scuola dopo l’assenza, e la merenda. Ma, insieme ai quaderni e le penne, nello zaino, Agostino aveva infilato il sacchetto di stoffa e l’idea di marinare le lezioni. Bastava modificare un po’ i numeri dei giorni sul libretto delle giustificazioni e avrebbe avuto una mattinata storica a disposizione. Scese dal bus a Colle Sapone; evitò di imbrancarsi con gli altri ragazzi nei bar lì vicino, gonfi di slot machines e alcoolici, ma vietati ai minori, e cominciò ad incamminarsi verso Collemaggio.
Arrivato al grande prato verde, che sapeva di non poter calpestare, si diresse verso il Parco del Sole. Era una mattina fredda e gonfia di sole azzurro. Che gli metteva rosso sulle guance e pepe alle gambe. Superato l’ingresso del parco, si diresse alla sua destra, verso uno spiazzo brullo. Lì si fermò. Scelse una pietra appuntita e un pezzo di ramo d’albero e cominciò a scavare la terra. Doveva realizzare il percorso per le biglie. Un circuito da corsa, tutto curve e salite, e discese. E il traguardo in fondo, come un miraggio che però si poteva finalmente toccare. Gli facevano male le mani e le braccia per la fatica del terreno duro di ghiaccio, e sudava. Ma ormai aveva scavato per oltre dieci metri, un piccolo fossato pronto ad accogliere le sue corse; pronto ad ascoltare le sue urla da tifoso che però gareggiava. Quando un’ombra gli si parò davanti, facendogli alzare lo sguardo.
Era un Vigile Urbano. Tutto vestito di pelle nera. Con un casco in testa, da motociclista, dal quale pendevano due lembi di tessuto che lo facevano assomigliare ad un soldato della Legione Straniera.
– Che stai combinando ? –
– La mia pista delle palline, non vedi ? –
– Non puoi. –
– E perché non posso ? –
– Perché qui a l’Aquila non si può costruire nulla senza permesso. –
– E che vuol dire ? –
– Vuol dire che, se vuoi costruire la pista delle palline, ti devi trovare uno sponsor. Poi devi elaborare un project financing e presentarlo alla Giunta Comunale. E la Giunta Comunale lo deve inserire nel Piano di Ricostruzione, in variante al Piano Regolatore Generale. E poi devi aspettare che il Consiglio Comunale non sia informato, ma lo approvi. E, infine, ti devi trovare una ditta, tra quelle presenti nella White List e affidarle l’appalto dei lavori, fermo restando che la Banca con cui hai costruito il Progetto, te lo finanzi regolarmente e non faccia la furba… –
– Scusi signor Vigile… –
– Dimmi ! –
– Ma se la mia pista la rivesto tutta di legno ? –
– Allora, è regolarmente abusiva e la puoi fare. –
– Grazie, signor Vigile . –