L’annuncio della Pasqua, che la Chiesa proclama con gioia, deve risuonare in noi come invito alla conversione, ma anche come preziosa opportunità per fare un “momento di verità”.  Di qui la domanda fondamentale che siamo chiamati a porci: “in che misura la Pasqua di Cristo è diventata la nostra Pasqua?

Sono molti i criteri che si possono assumere per fare una valutazione sapiente, ma certamente un “test” evangelico decisivo sta nell’esaminare come affrontiamo la sofferenza, quando – in forme minori o aspre – visita le nostre giornate.

Ricordiamo che Dio non ha abolito il male, né ha cancellato il dolore (che ci devastano “dentro”), ma ha inviato il Figlio ad assumerli su di sé e a vincerli. Con genialità espressiva sant’Agostino commenta: «Egli ha preso la morte e l’ha infissa alla croce e ne ha liberato i mortali (…). Nella morte di Cristo, la morte ha trovato la sua propria morte, poiché la Vita morendo ha ucciso la morte»[1].

In questa luce, l’apostolo Pietro ci esorta a vedere la sofferenza con occhi “pasquali” e a viverla con lo stile di “risorti”. Scrive nella sua Prima Lettera: «nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi» (4,13), infatti «se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (2,20).

E rivolgendosi ai membri della Chiesa afferma: «quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del Creatore e continuino a fare il bene» (4,19), «gettando in Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi» (5,7): «Egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi» (5,10).

Pur essendo credenti, il rischio è che rimaniamo prigionieri di un “cristianesimo in letargo”. La maturità della nostra fede si misura anche nel nostro modo di gestire i problemi. Se il livello della nostra carità è basso, nell’impatto con le avversità l’umore assume toni cupi che amplificano le reazioni negative, in noi e negli altri. Così facilmente finiamo incagliati nelle secche del nostro egoismo: allora la nostra “navigazione” evangelica si arena nel pessimismo risentito, in cui si agitano l’irritazione graffiante o il rigetto avvilito.

Dove la sofferenza è accolta e portata con anima abitata dalla Pasqua, il dolore resta, ma è trasformato in amore.

La tribolazione non si mette di traverso sulle vie dell’esistenza, provocando disagi o blocchi nel viaggio della nostra storia, ma scorre come forza propulsiva sulle vie della dedizione e della speranza cristiana ed umana. In altre parole, la difficoltà non rallenta o ferma il cammino cristiano della persona, ma lo fa avanzare in modo più spedito nella esperienza della verità e della fedeltà.

Nella prospettiva biblica, il discepolo di Gesù non è esentato “dai” problemi, ma impara a vivere libero “nei” problemi.

  Per tanti anni ho fatto accompagnamento spirituale di persone che desideravano prendere il Vangelo sul serio e metterlo in pratica, poggiando sull’aiuto del Signore.

Quando mi raccontavano che erano comparse sofferenze (nelle forme più varie ed intense), consigliavo di compiere, in successione, “tre passi” interiori:

  • Credere che in ogni sofferenza Dio ha depositato misteriosamente un dono di grazia (“Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”: Rm 8,28   )
  •  Affidarsi alla Provvidenza che ci dà la luce per trovare la “via d’uscita” e la forza per portare la croce (cfr. 1 Cor 10,13)
  • Con il dolore “abbracciato” evangelicamente proiettarsi a fare il bene che Dio ci chiede nel momento presente, nella certezza che lo Spirito interviene e ci offre risposte cariche di “risurrezione” (Dio “ha il potere di fare molto di più di ciò che possiamo domandare o pensare”: Ef 3,20)
  • Il Padre, infatti, risponde sempre all’ “amore-crocifisso” con l’“amore-risorto”: non sappiamo “dove”, “come” e “quando” questo avverrà, ma sappiamo che l’Onnipotente mantiene le Sue promesse e che la Sua grazia vince il mondo (“avrete tribolazioni nel mondo; ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo”: Gv 16,33).

Va detto, per onestà etica ed intellettuale, che un’alta dose di sofferenze ce la tiriamo addosso a causa degli sbagli che abbiamo fatto: quando si commettono errori il tempo, prima o poi, ci presenta il conto. In questi casi, dopo avere ammesso le nostre responsabilità, dobbiamo avere il coraggio di ripartire subito, senza rimanere atterrati dal carico dei nostri fallimenti (miopi o dolosi), che, in alcuni casi, potrebbe risultare schiacciante. Il segreto sta nel confidare nella Bontà paterna di Dio, che è più forte della nostra debolezza, e, sostenuti dalla Sua mano, riprendere a camminare sul sentiero della Sua Volontà. Scrive Papa Francesco: «Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia. (…) Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada» (EG, n.3)

Quando gli eventi che ci fanno patire partono dagli altri, occorre mettere in campo “strategie” di difesa caratterizzate da fermezza saggia e da misericordia, ispirate agli insegnamenti del Vangelo. Ricordiamo, tuttavia, che anche l’evidenza delle colpe del prossimo non ci autorizza a emettere sentenze implacabili e condanne irreversibili.

In questo orizzonte, ritengo illuminanti due frasi di sant’Agostino (amico di Dio ed esperto in umanità) che vanno custodite nel nostro archivio morale: «non v’è nessun peccato che ha fatto un uomo che non possa fare un altro uomo, se gli mancasse la protezione di Colui che ha fatto l’uomo»[2] . Per questo aggiungeva: «confesso che tu mi hai rimesso tutto ciò che io ho commesso per mia libera volontà, ma anche quello che non ho commesso, perché tu mi hai protetto»[3].

Ci conforta la certezza che il Signore non ci lascia mai soli, abbandonati a noi stessi, ma accende sempre lungo i nostri sentieri le luci di cui abbiamo bisogno per procedere nella direzione giusta e ci comunica tutta l’energia di cui abbiamo bisogno per superare le difficoltà, che sembrano sbarrare il percorso. «La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG, n. 114).

La Pasqua dà o restituisce senso al dolore: anche le Scienze umane sottolineano che la sofferenza più distruttiva è quella a cui non riusciamo a dare significato.

È nel campo dell’anima che si gioca la partita dell’esistenza. Quando si è in grado di dare valore “redentivo” alle afflizioni, allora cambia tutto “dentro”, anche se “fuori” tutto resta lo stesso.

L’amore che sa-soffrire, è anche amore che sa “con-patire”: perciò è amore che sa- aiutare, quanti attraversano periodi di aridità e di amarezza.

Nella Lettera ai Filippesi l’apostolo Paolo descrive la “discesa” di Gesù verso la condizione di “servitù” (la “kenosi”), che Gli ha consentito di assumere su di sé la nostra “morte” e riaprirci la porta della Vita (cfr. 2,5-11). Ci esorta, poi, ad avere in noi “gli stessi sentimenti” del Signore (cfr. 2,1-5), per vivere nella “carità universale”: “in tutto” e “verso tutti”  Questo processo, senza l’aiuto della grazia, ci è impossibile: infatti, mentre sul piano fisico la discesa è favorita dalla forza di gravità, sul piano umano la volontà di “abbassamento” trova in noi la spinta opposta: quella dell’orgoglio. Per andare verso un “amore-che-serve” occorre vincere una resistenza che si attiva in noi: come capita ad un subacqueo che, per andare verso il fondo deve nuotare con vigore, per vincere la spinta dell’acqua che tende a riportarlo in superficie. Ma sappiamo che il vigore per compiere questa “impresa evangelica” ci è donato in sovrabbondanza: nella Parola, nella Eucaristia e nella Comunione ecclesiale.

Stiamo vivendo l’“Anno della Misericordia”: permettetemi di sottolineare che Gesù oggi viene inchiodato non sul patibolo di legno, ma sulla “croce viva” dei Suoi fratelli scartati, offesi, maltrattati. È su questi volti che la luce della Pasqua ci permette di riconoscere l’immagine del Signore e ci spinge a spenderci generosamente, con “sollecitudine samaritana”.

Chiediamo a Maria – che nella Chiesa proclama il “Magnificat della Vita” – di renderci testimoni efficaci della Risurrezione, affinché dove il male e la sofferenza hanno messo radici profonde, arrivi, attraverso l’azione dello Spirito, il flusso sanante e trasformante della gioia, dell’unità e della pace.

                                                                                                                                                                                                                                 Con un augurio affettuoso e fraterno

Giuseppe Card. Petrocchi


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