L’AQUILA – Sit-in di protesta stamani davanti al Tribunale dell’Aquila in concomitanza con la udienza relativa alla vicenda legata ai 31 attivisti raggiunti dal decreto penale di condanna con una ammenda di 1.200 euro, per aver manifestato, il 24 novembre 2017, “contro la tortura del 41 bis e l’accanimento vessatorio dell’Amministrazione penitenziaria” nei confronti della brigatista Nadia Lioce, condannata all’ergastolo e rinchiusa nel carcere Le Costarelle nel capoluogo regionale.
A promuovere il presidio sono state associazioni che si battono contro il 41 bis, in particolare “per il Soccorso rosso proletario” rappresentato da Luigia Di Biase. Al processo odierno si è giunti in seguito all’apposizione dei manifestanti al decreto penale: la udienza è stata rinviata al primo marzo per difetto di notifica. La mobilitazione del 2017 si è tenuta in occasione della terza udienza del processo nei confronti della Lioce, “accusata – spiega Di Biase – di aver turbato la quiete di un carcere che l’ha sepolta viva, attraverso una serie di ‘battiture’ delle sbarre con una bottiglietta di plastica. Nadia fu assolta perché l’isolamento estremo in 41 bis non consentiva né a lei, né alle altre detenute sottoposte a questo regime di avere percezione di tale ‘disturbo’, cosicché lo stesso reato per cui veniva perseguita si configurava come un reato impossibile”. “L’isolamento carcerario previsto da tale regime é internazionalmente riconosciuto come una forma di tortura. Un regime che nega l’uso della parola, lo studio, la
lettura, la scrittura, la socialità, l’affettività, non può che definirsi un regime di tortura, lenta, continua, sistematica, fino all’annientamento psico-fisico, alla morte o alla resa – attacca ancora Di Biase -. E’ quello che stanno facendo al compagno anarchico Alfredo Cospito, in carcere da circa dieci anni, è quello che hanno fatto a Diana Blefari Melazzi, suicidata dallo Stato, ed è quello che fanno da oltre 17 anni agli altri militanti delle BR-PCC Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, che rivendicano la propria identità e difendono la causa rivoluzionaria per cui si ritrovano in carcere”.